“Senza paura, dal basso, butta lo sguardo – in una qualche pattumiera – e osserva. Slaccia la mente ignorante e vola… la visione ne guadagna, si fa più nitida, te lo assicuro, e se anche cadi non ti fai male! E’ un viaggio sensuale, per così dire: al di fuori del cervello. E il più verace e straordinario di tutti.”
Così avevo letto, e alzando gli occhi dal libro, pensai: “è un buon consiglio, grazie mille!”.
Due giorni dopo spiccai il volo, solcando la città coperta di smog e solipsismo, un mix caotico di corpi e urbanistica. Volavo qua e là, inseguendo gli uccelli grigi, ed ogni tanto mi appollaiavo su un albero e guardavo in basso. E in basso passava, fra gli altri: un parco, una strada, un giardino privato, un bambino sospinto in avanti da una donna molto più vecchia di lui. Nessuno pareva farmi caso – ma il parco, di tanto in tanto, sorrideva – e io potevo studiare le cose senza essere scorto.
Scesi poi a terra, e passeggiando provai a mischiarmi a loro. “Mischiarsi alle cose” è un ottimo modo per capirle, per scoprirne le sfumature intime, grezze, intricate, meravigliose: che ti colpiscono come acido sugli occhi o velluto sulle guance. E infine, seduto sul prato, confrontai le prospettive: alto e basso, uccello e uomo. Ma il mondo assumeva configurazioni per lo più incomprensibili. E la città… non aveva alcun senso. Le persone non avevano alcun senso. “Il pollo ha ragione?”, mi chiesi, dopo diversi minuti. L’idea era sconcertante. Il pollo l’avevo incontrato in un posto lontano, viaggiando verso ovest. “Il pollo era saggio?”. “Co-co” aveva detto, al principio del nostro primo incontro, un giorno di un tempo lontano, mentre passeggiavamo fianco a fianco su una collina. Mi aveva imbarazzato, quel suo verso. “Co-co”, aveva poi aggiunto, dopo qualche istante, alzando il becco e fissandomi, apparentemente deluso per la mancata risposta.
Tornai al presente.
Sapevo – o meglio, sospettavo – che ogni tanto occorresse uscire di strada: per seguire il dhamma, il Dao, Hakim Bey, il destino, il pollo, o come diavolo lo vuoi chiamare tu, caro lettore. Che “co-co” era un bel verso, e non di rado molto più significativo dei tanti milioni di vocaboli umani. “Co-co” è questo, “co-co” è quello. “Co-co non classifica, co-co è uno”, dissi fra me e me. (Follia?). “Co-co” non era radiatore, ortaggio, amore, navigare, costipazione, martellare, imprescindibile, lussuria, vago, ventotto, rinoceronte, soprammobile, fachiro, ingenuità, arma-di-distruzione-di-massa, stronzo, clorofilla, marmellata, transustanziazione, neo, mattonella. Non era nessuna delle mille distinzioni. “Co-co” era tutto, ed era armonia. Quindi “co-co”, con moderazione, si doveva dire e faceva bene, perfino in risposta a un pollo. Ne ero ormai convinto e, avvicinando un uomo basso con un cappello triste, gli dissi con entusiasmo: “se anche – sfortunatamente – viviamo in un mondo di uomini – e a volte lo siamo persino, umani –, e occorre parlare la lingua complessa del tutto-è-distinto-da-tutto, bè, non importa. La realtà si può cambiare, sempre! Occorre solo credere in un’altra realtà. E agire come se fosse lì. A quel punto ‘co-co’ può davvero essere un fiore o una palla da bowling, o un cacciavite. Non trova? Cosa ne pensa dei polli, lei?”. Per qualche ragione l’uomo accelerò il passo e, senza rispondere, girò l’angolo e si allontanò.
Continuai a passeggiare e a osservare, e infine mi levai nuovamente in volo, chiudendo la mente e aprendo i sensi. E volai in alto, sempre più in alto, pensando alla voce del pollo. E dopo un tempo imprecisato, all’improvviso, senza sapere realmente come, avevo abbandonato il sopra-sotto convenzionale e mi trovavo circondato da un cielo diverso, color terriccio, che mai avevo visto prima. Mi appollaiai su di una stella lignea e abbassando lo sguardo scrutai l’universo, dicendo e ridicendo “co-co” fra me e me e al vento… poi volsi lo sguardo in alto, e lassù ravvisai fra nebbia e fumo la città inquinata da uomini e macchinari e chimica e suoni. “Co-co”, pensai. Una città. “Co-co”. Un’automobile. ”Co-co”. Un signore di mezza età che cammina su un marciapiedi. “Co-co”. Una pozzanghera… e un centro commerciale e un bambino, una signora, un ospedale, un albero. “Co-co”. “Co-co”. “Co-co”. E dimenticai tutto. E vidi ogni cosa. E il sotto-(è)-sopra e il sopra-(è)-sotto trasmutarono e turbinarono d’un tratto in ogni-direzione, e avevo smesso di volare, e mi libravo a mezz’aria senza muovere un muscolo. Così mi svegliai dal sonno degli uomini. Ma, si sa, al sogno non si sfugge, ed eccomi di nuovo qua, nella dimensione onirica, a scrivere frammenti multicolore di quella realtà, così vivida e meravigliosa. Proprio così.