Niente domande, umano!

Gli avevo domandato più volte cosa fosse la normalità. Una cosa non comune da chiedersi a un coniglio che vive in un cappello, ne convengo, ma ormai ero abituato a quello strano compagno di discussioni, e la sua presenza non mi appariva più tanto assurda come un tempo.

Comunque, lui mi aveva sempre risposto, o per meglio dire quasi sempre – quando non era stato troppo impegnato a dormire o a sgranocchiare una carota – e la sua risposta era sempre stata differente. Una volta, ad esempio, mi aveva detto che la normalità è semplicemente “quello che le persone credono sia normale. Niente di più, niente di meno”; un’altra, aveva sostenuto che si trattasse in realtà della “mediocrità che la società ci impone come stile di vita dominante. Spezzare le catene di questa schiavitù simbolica è la sfida che distingue l’uomo comune dal genio!”. Questa in particolare me l’ero segnata, molto significativa davvero; o ancora: “è il mondo reale visto con le lenti della tradizione”; oppure: “è l’insieme delle più tremende menzogne, che la gente rende vere attraverso l’aggregazione di miriadi di opinioni false che vanno nella stessa direzione.”; ecc. ecc. ecc.

Infine, un pomeriggio di inizio dicembre, ovvero qualche giorno fa, mi diede questa ris… no, un momento, aspettate, fermiamoci un attimo qui. Rompiamo lo schermo e guardiamoci in faccia, io e te, lettore. A questo punto potresti pensare: a) che questa, come le precedenti, sia una storiella allegorica, e che i conigli parlanti non esistano affatto b) che io abbia un coniglio parlante immaginario come interlocutore, una sorta di psicosi filosofica c) che i conigli parlanti esistano realmente, e io sia uno di quei pochi privilegiati a cui rivolgono la parola.

Bene, ora ritorno da questa parte dello schermo, senza svelare la mia verità, per il momento. Sappi solo che ti tengo d’occhio. Continuiamo.

Dunque, certo, il contesto: un coniglio in un cappello, un uomo in un pigiama blu. Il cappello su un tavolino. L’uomo su un divano. La data l’ho accennata, così come la domanda. La risposta:

“… va bene, lascia che ti parli da coniglio a uomo, questa volta, sinceramente… le risposte che ti ho dato, vedi, si trattava di giochetti linguistici, futili concetti ingarbugliati. Mi devi scusare… volevo solo metterti alla prova. La verità è che…” me lo diceva sgranocchiando distrattamente una carota di medie dimensioni “… se te lo stai chiedendo, vedi, sei totalmente fuori strada. Totalmente fuori strada… non esiste una risposta alla tua domanda, perché è una domanda senza senso. Ogni risposta che richieda una domanda lo è, in effetti. Una risposta che richieda una domanda non può che essere un giochetto linguistico, oppure un concetto ingarbugliato, spesso entrambe le cose. Ciò che ti dico sempre te lo ripeto anche questa volta: la realtà è là fuori, davvero, ed è esperienza di ciò che accade, e non è una risposta a una domanda”.

Al mio sguardo stupito il coniglio rispose muovendo buffamente le orecchie verso destra, senza aggiungere altro. Allora mi sdraiai sul divano e chiusi gli occhi, provando a percepire ciò che mi stava attorno, liberandomi delle catene del pensiero. Poco dopo sentii il fruscio del suo pelo contro le pareti della tuba, seguito dal tonfo lieve di avanzi di carota buttati sul pavimento.

Published in: on dicembre 6, 2013 at 9:05 PM  Lascia un commento  
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La via del benessere e dell’equilibrio

Viviamo sempre più nel futuro e sempre meno nel presente. Facciamo progetti su ogni cosa, pianifichiamo la nostra vita cercando di incanalarla verso sentieri di benessere per noi e per le persone a cui vogliamo bene.

E lo inseguiamo ovunque, il benessere: in palestra o in un negozio di vestiti, seduti al tavolo di un bel ristorante o sfogliando inserzioni di lavoro. A volte, non riuscendo a raggiungerlo, montiamo pacchi e valige e partiamo alla sua ricerca. Dopo anni di inseguimenti, molti di noi si rassegnano al fatto che esso sia irraggiungibile, o che si tratti di una mera questione di obiettivi non raggiunti e sogni irrealizzati.

Eppure, e non è mai troppo banale ribadirlo, di rado lo ricerchiamo dentro noi stessi.

Per le dinamiche di pensiero che ci caratterizzano, noi esseri umani tendiamo continuamente a espandere l’orizzonte dei nostri desideri così che, una volta raggiunto un obiettivo, ce ne dimentichiamo presto, dandolo per scontato. Tale meccanismo, sebbene abbia contribuito a condurci verso sviluppi tecnici e culturali tali da consentirci oggi l’accesso a stili di vita ben più agiati di quelli cui potevano accedere i sovrani di tempi nemmeno troppo remoti, ci ha al tempo stesso spinti a identificare il benessere con la soddisfazione di desideri infiniti, incatenando così la nostra felicità a quel continuo inseguimento del di più, del meglio e del nuovo che ci impedisce di godere appieno di ciò che già possediamo (in termini sia materiali che relazionali).

Di nuovo, sembra una concetto banale, di cui tutti sono più o meno consapevoli. Eppure in pochi agiscono di conseguenza.

Ma che cosa significa agire di conseguenza?

Innanzitutto significa prendere coscienza del fatto che il benessere è uno stato e non un processo, e che in quanto tale esso può essere realizzato qui e ora, con difficoltà maggiori o minori a seconda del punto di partenza psicofisico del singolo individuo.

In un certo senso un primo requisito per trovare un equilibrio ed un benessere reali e duraturi è smettere di cercarli. Occorre abbandonare sia le speculazioni e le speranze del futuro, sia le invidie e gli egoismi del presente. Non significa tuttavia rinunciare ad ogni cosa per andare a vivere in un eremo, e nemmeno rinunciare ai propri sogni. Semplicemente implica il tentativo di distaccarsi da queste cose emotivamente e, per quanto possibile, ritornare a vivere il presente percependone la bellezza.

Naturalmente se tutto ciò fosse facile da realizzarsi saremmo probabilmente già tutti dei buddha, e il mio discorso non avrebbe più alcun senso. Dunque occorre necessariamente scendere nella pratica, e provare a vedere se si può fare qualcosa a riguardo.

Fortunatamente la terra del benessere e dell’equilibrio psicofisico non è una Nuova America: in molti l’hanno solcata in passato e in molti la solcano nel presente, e le loro impronte sono ancora ben visibili sul selciato e possono essere seguite da tutti. Il primo passo, l’abbiamo detto, è la presa di coscienza di come stanno le cose: la struttura del desiderio e la vanità del suo incessante inseguimento.

Il secondo è agire di conseguenza. Il percorso da seguire è una pluralità di percorsi possibili,  ma tutti possono essere resi più agevoli se coordinati in due dimensioni: la dimensione relazionale e la dimensione personale.

Sulla prima si può agire ad esempio attraverso l’affiliazione a gruppi di persone che perseguono uno stile di vita più lento e rilassato. Questi possono essere differenti per caratteristiche e finalità: associazioni di acquisto equo e solidale, reti di volontariato, circoli culturali basati sulla condivisione e il dialogo, movimenti di consumo critico o di matrice ecologista ecc.

All’interno della dimensione relazionale rivestono naturalmente grande peso anche la struttura delle reti relazionali individuali preesistenti (e in particolare amici, familiari e colleghi di lavoro), le dinamiche mediante le quali l’individuo interagisce con esse e lo stato psicofisico dei loro componenti: individui stressati, nervosi e freneticamente attivi oppure al contrario apatici e rassegnati, possono seriamente compromettere l’equilibrio e il benessere delle persone con cui entrano quotidianamente in contatto.

Vi è poi la dimensione personale, centrale in qualsiasi via che punti al benessere. Il lavoro sulle proprie abitudini e convinzioni radicate – spesso a livello inconscio – può essere difficile, ma i primi passi sono certamente i più importanti, e fra questi  è senz’altro essenziale il primo: prendere la decisione di fare qualcosa, e farla.

A prima vista verrebbe da dire: “io prendo continuamente decisioni e le metto in pratica”. Eppure se pensiamo a quante decisioni sono dettate dai nostri desideri del presente e del futuro e quante puntano invece ad un benessere duraturo, ci rendiamo conto che la maggior parte di noi in realtà non prende decisioni e non agisce, bensì subisce input esterni o interni e li mette in atto meccanicamente.

Per mille persone che decidono di agire nella giusta direzione, comunque, sono veramente poche quelle che poi effettivamente lo fanno: basta vedere quanti milioni di copie vendono i libri sul miglioramento personale e assistere al parallelo incremento nelle vendite di psicofarmaci e nell’uso di droghe. Il problema, va ribadito, non è la mancanza di strumenti: ve ne sono a centinaia, e la maggior parte di essi sono facilmente accessibili a tutti; il problema è che non ce ne rendiamo conto o non siamo in grado di coglierli e utilizzarli.

Solo per citare alcuni esempi, fra gli strumenti e pratiche utili che attengono alla dimensione personale troviamo: la meditazione, passeggiate più o meno lunghe a contatto con la natura, la riconsiderazione del proprio tempo libero a favore delle relazioni piuttosto che dei consumi, il volontariato e il mantenimento di una dieta equilibrata.

Dunque il mio appello è il seguente: agite, agite, agite. Un benessere reale e duraturo è possibile e non dipende affatto dal vostro conto in banca o dalla vostra formazione professionale. Lasciate perdere le belle parole e i bei concetti: essi da soli non possono apportare alcun cambiamento significativo nelle vostre vite. Una sola persona può farlo, e siete voi stessi. Abbandonate la sedia, spegnete il computer e respirate. Spezzate il circolo dell’ozio, oppure spezzate il circolo dell’attività frenetica: entrambi sono senza uscita.

Ma ho già parlato troppo, e qualsiasi riga ulteriore sarebbe superflua.

Vi lascio invece con una breve storia Zen, che ben coglie il senso di quanto detto sinora.

In un sutra, il Buddha raccontò una parabola: un uomo che camminava per un campo si imbatté in una tigre. Si mise a correre, tallonato dalla tigre. Giunto a un precipizio, si afferrò alla radice di una vite selvatica e si lasciò penzolare oltre l’orlo. La tigre lo fiutava dall’alto. Tremando, l’uomo guardò giù, dove, in fondo all’abisso, un’altra tigre lo aspettava per divorarlo. Soltanto la vite lo reggeva. Due topi, uno bianco e uno nero, cominciarono a rosicchiare pian piano la vite. L’uomo scorse accanto a sé una bellissima fragola. Afferrandosi alla vite con una mano sola, con l’altra spiccò la fragola. Com’era dolce!

A presto!

Published in: on ottobre 28, 2012 at 4:50 PM  Lascia un commento  
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Una prospettiva zen

In questi giorni mi sono ritrovato tra le mani un vecchio tomo contenente saggi sul buddhismo zen.

Credo fosse di mio padre e non so davvero dire come sia finito un giorno su uno scaffale della mia libreria sepolto fra gli altri miei libri. Spinto dall’interesse per le filosofie orientali che nel corso degli anni mi ha portato a leggere testi indù, buddhisti e taoisti, ieri sera ho preso a sfogliarlo, e ho così scoperto un breve testo scritto da un maestro cinese del settimo secolo dopo cristo, chiamato Hsin hsin ming (ho trovato diverse traduzioni italiane del titolo, tutte molto poetiche, fra le quali “libro del nulla” e “sullo spirito credente”).

Che dire, mi ha aperto gli occhi, e mi sento di consigliare a tutti di concedergli almeno un’occhiata, non importa quale sia la vostra fede religiosa, perché è un testo che va al di là della religione.

D’accordo, ho iniziato il post intenzionato a parlarvi di Zen, ma ora mi rendo conto di quanto sia difficile tale proposito.

Perché la filosofia Zen (o Chen in Cina, dove è nata) è costruita tutta attorno al precetto della non speculazione, intorno al rifiuto del pensiero, e in ultima analisi intorno al rifiuto della conoscenza stessa (intesa come accumulazione e archiviazione di dati),  sulla contemplazione della realtà senza filtri. Parlare di filosofia Zen è in effetti quasi un ossimoro.

Molti ritengono lo Zen una pratica ascetica, ma questo è proprio ciò che lo Zen non è! Esso consiste, ed è facile in questo ravvisare punti di contatto con il Taoismo delle origini [1], nel vivere la propria vita, non fuggendo da essa ma vivendo nel momento presente, senza fughe in un passato nostalgico o in un futuro di speranza, e senza cercare la verità poiché “non avere alcuna verità su cui discorrere significa discorrere sulla verità” [2].

La comprensione del mondo è qualcosa che si sviluppa attraverso l’esercizio delle proprie mansioni quotidiane, con la pratica della meditazione (che però non è un isolarsi dal mondo, ma al contrario l’esercizio di guardare al mondo senza filtri mentali [3]), seguendo la natura delle cose senza forzarle. E però la comprensione non è lo scopo ultimo dello Zen, né lo è il raggiungimento dell’illuminazione.

Qual’è allora lo scopo e l’essenza dello Zen? A un discepolo che gli sottoponeva questa domanda il famoso maestro Josshu domandò:

“Hai finito di mangiare?”

“Sì maestro, ho finito”

“Allora, và a lavare le stoviglie!”

Lo Zen è ricco di aneddoti di questo tipo, proprio in quanto la comprensione, non essendo raggingibile attraverso la mente, si dischiude davanti a chi applica lo Zen attraverso la separazione da essa e dunque da tutte le speculazioni, da tutti i dualismi (bene-male, giusto-sbagliato ecc.) e tutte le emozioni negative che essa comporta.

Lo Zen ci insegna a liberarci dalle tensioni, dallo stress, dalle pressioni di una società sempre più frenetica. Per questo credo sia qualcosa di veramente utile per l’uomo moderno, ancor più che per gli antichi, in occidente come in oriente.

note:

1) cfr. in particolare il daodejing e il chuang tzu.

2) dal Prajnaparamita sutra, citato in “Saggi sul Buddhismo Zen” di D.T. Suzuki.

3) “Quando non sorgono pensieri discriminatori, la mente cessa di esistere” (Hsin hsin ming, traduzione dall’inglese di Andrea Mosca)

Published in: on dicembre 18, 2010 at 7:16 PM  Lascia un commento  
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